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Epatite Delta, risultati promettenti con una terapia di combinazione. Studio su NEJM

Per l’infezione cronica da epatite Delta la combinazione dell’antivirale bulevirtide più peginterferone alfa-2a si è rivelata superiore alla monoterapia con solo bulevirtide, secondo quanto rilevato da uno studio multinazionale di fase IIb in aperto condotto in Europa e pubblicato sul New England Journal of Medicine (NEJM).

Il virus dell’epatite Delta (HDV) è difettoso e richiede l’antigene di superficie del virus dell'epatite B (HBsAg) per l'assemblaggio e la propagazione. Anche se negli Stati Uniti non è un’infezione comune, colpisce circa 20 milioni di persone in tutto il mondo e, essendo la forma più grave di epatite virale cronica, è associata a un rischio 2-6 volte maggiore di carcinoma epatocellulare e a un rischio di decesso 2-3 volte superiore rispetto a quello associato alla monoinfezione dal virus dell’epatite B.

«A oggi non vi sono trattamenti approvati per l'infezione cronica da HDV negli Stati Uniti. Il peginterferone alfa-2a, pur non essendo autorizzato, è l'unica opzione raccomandata dalle linee guida terapeutiche statunitensi» ha affermato l’autore senior Fabien Zoulim, epatologo presso l'Istituto di epatologia di Lione e professore di medicina presso l'Università di Lione in Francia. «Bulevirtide 2 mg è approvato per il trattamento dell'HDV cronica e dell'epatopatia compensata, e sia bulevirtide che peginterferone sono opzioni raccomandate dalle linee guida terapeutiche europee».

Uno studio in aperto per valutare 4 possibili approcci terapeutici

Nello studio di fase IIb 174 pazienti, in gran parte maschi e di età compresa tra 18 e 65 anni (media di circa 41 anni), sono stati assegnati in modo casuale a ricevere uno di quattro trattamenti:

Peginterferone alfa-2a da solo alla dose di 180 μg a settimana per 48 settimane (n = 24).

Bulevirtide alla dose giornaliera di 2 mg più peginterferone alfa-2a alla dose di 180 μg a settimana per 48 settimane, seguita dalla stessa dose giornaliera di bulevirtide per 48 settimane (n = 50).

Bulevirtide alla dose di 10 mg più peginterferone alfa-2a alla dose di 180 μg a settimana per 48 settimane, seguito dalla stessa dose giornaliera di bulevirtide per 48 settimane (n = 50).

Bulevirtide da solo alla dose giornaliera di 10 mg per 96 settimane (n = 50).

Tutti i partecipanti sono stati seguiti per 48 settimane dopo il trattamento. Il confronto primario era tra il gruppo bulevirtide 10 mg più peginterferone alfa-2a e il gruppo bulevirtide 10 mg in monoterapia.

Tassi più elevati di soppressione dell'HDV-RNA con la terapia combinata

Dopo 24 settimane dal termine del trattamento, l’HDV-RNA non era rilevabile nel 17% dei pazienti nel gruppo peginterferone alfa-2a da solo, nel 32% del gruppo bulevirtide 2 mg più peginterferone alfa-2a, nel 46% del gruppo bulevirtide 10 mg più peginterferone alfa-2a e nel 12% del gruppo bulevirtide 10 mg da solo. Riguardo al confronto primario, la differenza tra i gruppi era del 34% (P<0,001).

A 48 settimane dalla fine del trattamento, l’HDV-RNA non era rilevabile nel 25%, 26%, 46% e 12% dei soggetti nei rispettivi gruppi.

In termini di sicurezza gli eventi avversi più frequenti sono stati leucopenia, neutropenia e trombocitopenia, principalmente di grado 1 o 2.

«La risposta sembrava essere mantenuta da 24 a 48 settimane dopo la fine del trattamento. Questa scoperta supporta la possibilità di mantenere livelli non rilevabili di HDV-RNA per almeno 1 anno dopo il trattamento nei pazienti con epatite cronica D che sono stati trattati per almeno 96 settimane, comprese 48 settimane di terapia con peginterferone alfa-2a» hanno scritto i ricercatori guidati da Tarik Asselah, professore di medicina ed epatologia all’Hôpital Beaujon, APHP, di Clichy, Francia, e all'Università di Parigi.

Tra i limiti della sperimentazione gli autori hanno riconosciuto che, oltre a non essere in cieco, lo studio non era stato progettato per confrontare le due dosi di bulevirtide e quindi mancava un campione di dimensioni adeguate per effettuare confronti formali, così come per il gruppo in monoterapia con peginterferone alfa-2a.

«I risultati dello studio sembrano promettenti per il futuro trattamento dell'epatite Delta, ma servirà tempo prima che la Fda approvi la terapia di combinazione con bulevirtide, dato che in precedenza ha richiesto di poter valutare un maggior numero di studi» ha commentato Ahmet Gurakar, professore di medicina nelle sezioni di gastroenterologia ed epatologia presso la Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora, nel Maryland. «I risultati devono essere confermati in gruppi più ampi ma è difficile reclutare un numero sufficiente di pazienti negli Stati Uniti per una sperimentazione, dato in questo paese l’epatite D non è comune, a differenza delle popolazioni dell’Europa orientale del bacino del Mediterraneo».

«L'Ema ha approvato bulevirtide solo alla dose di 2 mg, tuttavia questi esiti dovrebbero suggerire di rivalutare se il farmaco debba essere usato in combinazione con interferone pegilato in pazienti senza controindicazioni e se una dose di 10 mg sia più appropriata di una da 2 mg» ha osservato Anna Lok, gastroenterologa presso l'Università del Michigan, Ann Arbor.

Fonte: pharmastar.it

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