Epatite Delta (Hdv), Conforti (EpaC): “L’isolamento sociale tra le insidie maggiori per chi ha questa malattia”
La diagnosi di una malattia è sempre una tegola che cade sul capo. Nel caso dell’epatite Delta, però, ci sono almeno tre peculiarità”.
Il rapporto tra Massimiliano Conforti e il “mondo” delle epatiti dura ormai da quasi trent’anni. E conta relativamente il fatto che nel suo caso a colpirlo sia stato il virus dell’epatite C: eradicato sì, ma comunque causa di una serie di complicanze. Anche recenti.
Il ruolo di vicepresidente dell’associazione EpaC lo pone quotidianamente in contatto con persone affette da diverse forme di epatite cronica: compresa la Delta, quella potenzialmente più grave poiché pure la meno conosciuta.
Cosa contraddistingue i pazienti con epatite Delta?
Cosa le raccontano gli interlocutori, nel momento in cui si avvicinano all’associazione?
“Cercano soprattutto informazioni, perché di epatiti non si è mai parlato a sufficienza. E di quella Delta men che meno. Chi ci contatta ha spesso già ricevuto una diagnosi o ha il forte sospetto di poter avere l’infezione. In entrambi i casi, si tratta di persone molto preoccupate.
Queste persone hanno innanzitutto due problemi concomitanti: l’infezione da epatite B e quella da epatite Delta. Un aspetto non irrilevante: né sul piano clinico né su quello psicologico, come si evince peraltro anche dalle testimonianze che avete raccolto.
C’è poi lo stigma, in questo caso massimo a causa della scarsa conoscenza da parte della popolazione. Non dimentichiamoci che questi pazienti fino a poco tempo fa avevano poche opzioni terapeutiche e comunque mai risolutive, rispetto a quanto invece si registra nel caso dell’epatite C.
La prospettiva di dover ricorrere a un trapianto o di sviluppare un tumore, nel loro caso, è maggiormente sentita rispetto a tutti gli altri”.
Epatite Delta: il percorso informativo è incompleto
Cosa la porta a dire che la conoscenza riguardo questa infezione e la malattia che ne può scaturire è ancora lacunosa?
“I dati in nostro possesso ci portano ad affermare che appena 6 pazienti su 10 che sono portatori cronici del virus dell’epatite B hanno effettuato il primo screening per l’epatite Delta – prosegue Conforti -. E di quelli positivi, non tutti hanno effettuato il test della carica virale. Un esame che EpaC ha chiesto di inserire come nuova prestazione nei livelli essenziali di assistenza (Lea), utile a fare la diagnosi completa.
Questo vuol dire che, presumibilmente, nessuno ha detto loro di dover completare l’iter diagnostico anche per un’altra infezione. A ciò si aggiunge il fatto che il profilo dei pazienti sta cambiando.
“Tra gli stranieri, in molti oggi scoprono nello stesso momento di avere sia l’infezione da Hbv sia quella da Hdv. E nel loro caso, all’aspetto clinico, si aggiungono spesso le difficoltà che accompagnano ogni persona che vive da poco in un Paese diverso da quello di origine”.
Il carico psicologico che accompagna una diagnosi di epatite Delta
Non è semplice scoprire di avere una malattia come questa tra i 20 e i 30 anni.
“Incrociamo pazienti molto giovani, in cui spesso rivedo la mia storia – aggiunge il vicepresidente di EpaC onlus -. L’impatto è notevole e sfaccettato: a partire dai risvolti sociali per finire a quelli professionali. Inizia un cammino nuovo, in cui si costruisce la vita in base alla malattia.
Uscire a cena con qualcun altro non è più semplice come prima, nel momento in cui occorre dire a un commensale che non si può più bere un calice di vino. La curiosità di chi è a tavola è spontanea, ma la comprensione della causa non è scontata. Ho perso il conto del numero delle persone non appartenenti a target a rischio che ci hanno chiamato con un numero anonimo, dopo aver fatto degli esami per conto proprio”.
Un pensiero diffuso, tra loro, è quello di dover spiegare che non hanno mai assunto sostanze stupefacenti né avuto rapporti sessuali a rischio.
“Esperienze di questo tipo, seppur in numero ridotto, si registrano anche tra i pazienti con epatite Delta. Premesso che il contatto con l’Hdv non è legato esclusivamente a un comportamento di questo tipo, le loro paure sono la testimonianza dello stigma che accompagna ancora queste malattie”.
Evitare l’isolamento sociale dopo la diagnosi
Prosegue Conforti: “Le circostanze che ho indicato hanno come epilogo più grave la riduzione dei contatti. Ancora troppo spesso una persona che scopre di avere l’epatite si sente additata, inadeguata. Finanche sporca”.
Sono sensazioni che provai anche io trent’anni, dopo aver scoperto l’epatite C. E che in parte ho ritrovato anche leggendo l’intervista a quello che oggi è il primo paziente che consideriamo guarito dall’epatite Delta“.
Per questo serve innanzitutto parlare della malattia, affinché si possano raggiungere almeno i traguardi di cui oggi possono beneficiare le persone che hanno avuto l’epatite C o che convivono con l’Hiv.
Come migliorare l’offerta sanitaria nei confronti dell’epatite Delta?
Per migliorare l’offerta sanitaria, secondo Conforti, occorre dunque “innanzitutto una campagna di informazione diretta alla popolazione generale sulle epatiti”.
Questo è il primo passo che può da un lato permettere di far emergere un eventuale sommerso, fare diagnosi e nell’eventualità iniziare un percorso di cura. E dall’altro far crescere la comprensione da parte di tutti gli altri.
“Oggi chi ha un tumore ha la fortuna di sentirsi quasi sempre avvolto e protetto. A un traguardo simile sarebbe ideale arrivare pure nel caso dei pazienti alle prese con una malattia infettiva e trasmissibile quali sono le epatiti virali”.
E poi? “Vanno creati percorsi nuovi, con strumenti adeguati. Non possiamo continuare a far finta che l’Hdv oggi circoli soprattutto tra gli stranieri che vivono nel nostro Paese, regolarmente o no. Parliamo di persone che vivono in Italia, qui spesso lavorano e pagano le tasse.
Di conseguenza è il nostro servizio sanitario che deve farsi carico dell’assistenza, che va adeguata alle necessità: con una ricerca attiva dell’infezione nelle comunità a rischio, un ingresso più agevole nell’eventuale percorso di cura, il supporto ove necessario di un mediatore culturale e una comunicazione adeguata tra medici e pazienti“.
I bisogni che maturano durante il percorso terapeutico
La testimonianza di Antonella ricorda più di qualsiasi altra considerazione quanto difficile sia anche affrontare il percorso delle cure.
“Occorre rimanere vicino ai pazienti in terapia – conclude Conforti -. I farmaci vanno assunti ogni giorno: sono lì a ricordare quotidianamente la presenza della malattia. E il calendario dei controlli è serrato. Essere un paziente, di fatto, equivale ad avere un altro lavoro. Con in più il carico di ansia e preoccupazioni con cui è chiamato a convivere chi ha una malattia cronica: sia essa un tumore o un’epatite.
Spesso queste persone faticano a trovare un adeguato supporto psicologico nel servizio sanitario nazionale. Così siamo noi reduci, quasi sempre, a dover farci carico del counseling”.
Fonte: aboutpharma.com