Epatite Delta (Hdv): come intercettare i soggetti a maggior rischio?
Tra tutte le epatiti di origine virale, è la meno conosciuta. E, di conseguenza, la meno ricercata.
L’epatite Delta – provocata dall’Hdv, in grado di aggredire il fegato soltanto in presenza di una concomitante infezione da virus dell’epatite B (Hbv) – sconta un deficit di conoscenza dovuto a un numero di casi ridotto rispetto alle altre infezioni da virus epatitici e a una transizione epidemiologica che oggi porta gli specialisti italiani a dover fare i conti con due categorie di pazienti quasi distinte e separate.
Da qui un’ulteriore difficoltà nel percorso volto all’identificazione precoce dei soggetti a rischio.
Un passaggio cruciale – come ribadito a più riprese dagli specialisti finora coinvolti nella rubrica Storie D Persone – per migliorare l’esito delle cure e la qualità della vita dei pazienti.
La lenta transizione dell’infezione da HDV in Italia
La prevalenza dell’infezione da Hdv lungo la Penisola è rimasta pressoché invariata, dall’inizio del secolo a oggi: tra il 7 e l’8 per cento dei soggetti che presentano un’infezione cronica da Hbv (HBsAg positivi). Quello che sta cambiando, però, è il profilo dei pazienti.
Se gli ultimi decenni del secolo scorso erano stati caratterizzati da una crescente diffusione del virus nella popolazione autoctona, la prevenzione vaccinale dell’infezione da Hbv ha determinato una sensibile riduzione della prevalenza dell’Hdv tra gli italiani. Questo non ha però fatto scomparire il virus dallo Stivale, poiché è gradualmente cresciuta la quota di stranieri infetti che vive nel nostro Paese.
“Se ci basiamo sui dati di un’indagine condotta in Toscana, a Pisa, possiamo dire che nel passaggio dal primo al secondo decennio del ventunesimo secolo la prevalenza di cittadini stranieri positivi all’Hdv è quasi raddoppiata”, afferma Maurizia Brunetto, direttore dell’unità operativa complessa di epatologia e del Dipartimento delle specialità mediche dell’Azienda ospedaliero-universitaria Pisana, citando i dati di uno studio da lei coordinato e pubblicato sulla rivista Digestive and Liver Diseases.
“Si tratta di pazienti diversi da quelli italiani: molto più giovani, quasi mai trattati e con una malattia molto attiva e spesso evoluta in cirrosi”.
Epatite Delta: come sono cambiati i pazienti italiani
Le testimonianze raccolte e raccontate da AboutPharma nelle scorse settimane – sia quella del primo paziente guarito con il primo antivirale specifico contro Hdv sia quella di Antonella – circostanziano l’ultima affermazione.
“I pazienti italiani con epatite Delta sono un gruppo residuale, in quanto i connazionali che presentavano un quadro grave ed aggressivo di malattia, quale quello che oggi rileviamo perlopiù tra i cittadini stranieri, hanno avuto un’evoluzione della malattia di fegato verso forme terminali e spesso sono stati trapiantati – chiarisce la specialista –. Mentre la quasi totalità dei pazienti di origine italiana che seguiamo oggi nei nostri centri sono soggetti che hanno una malattia di fegato di lunga durata, che ha avuto un andamento indolente, ma ora è evoluta in cirrosi”.
Più che di nuove diagnosi, in molti casi si tratta di pazienti già noti, sottopostisi in passato al trattamento con interferone. Soltanto occasionalmente giungono all’osservazione pazienti con iniziale diagnosi di epatite B, risultati poi non responsivi al trattamento specifico. Da qui gli approfondimenti, che spesso portano all’evidenza della co-infezione di Hbv e Hdv.
Un momento, quest’ultimo, che impone agli specialisti di porre particolare attenzione anche alla comunicazione nei confronti del paziente.
Da dove arrivano i “nuovi” pazienti?
Il medico che prende in carico un paziente con infezione da Hbv dovrebbe sempre ricercare l’eventuale avvenuta esposizione ad Hdv.
Il virus (quest’ultimo) oggi circola in maniera sostenuta soprattutto in alcuni Paesi dell’Europa dell’Est (Romania, Moldavia, Albania), in Mongolia, in Pakistan e nell’Africa subsahariana. Nazioni nelle quali la profilassi contro l’epatite B, è partita con notevole ritardo rispetto all’Italia.
Da qui la circolazione rimasta sostenuta – per anni e in alcuni casi ancora oggi – sia dell’Hbv che dell’Hdv. Considerando che l’Italia è spesso meta dei flussi migratori che partono da questi Paesi, si capisce perché la prevalenza di Hdv fra i soggetti HBsAg positivi rimanga stabile (nonostante la riduzione dei casi autoctoni).
Dati che indicano come per intercettare le persone a rischio, il servizio sanitario debba lavorare a braccetto con chi vive a stretto contatto con queste comunità.
Hdv: come intercettare i soggetti a rischio?
“Se parliamo di migranti, l’approccio va differenziato: tra coloro che vivono stabilmente in Italia e i migranti irregolari – prosegue Brunetto –. Nel primo caso occorre potenziare la consapevolezza di persone che spesso arrivano alla nostra osservazione, perché già informate dell’infezione e del rischio che ne consegue. Si tratta di cittadini che vivono in Italia già da tempo, spesso inseriti all’interno di una comunità di connazionali che ne agevola l’invio ai centri di cura”.
I loro sono i casi che creano meno problemi per quel che riguarda l’aderenza terapeutica. Ben diverso invece è il discorso quando si guarda ai migranti irregolari. “In questi casi spesso l’unica opportunità per intercettare nuovi casi è rappresentata dallo screening nei centri di prima e seconda accoglienza”.
Un processo che ormai avviene quasi nella totalità dei casi. Ma che non sempre risulta esteso anche all’infezione da Hdv, nei pazienti HBsAg positivi.
“In realtà va tenuto presente che la diffusività di Hdv fra i portatori di Hbv è elevatissima – puntualizza la specialista –. Quindi identificare il soggetto con infezione da Hdv nell’ambito di una comunità dove sono presenti portatori di Hbv è fondamentale per mettere in atto azioni volte ad evitare la trasmissione dell’infezione”.
Screening per tutti i pazienti con l’epatite B
Per superare questo scoglio, sia di fronte ai cittadini stranieri sia al cospetto di nuovi potenziali pazienti italiani, la Società europea per lo studio delle malattie del fegato (Easl) ha appena pubblicato le prime linee guida internazionali per la gestione dell’epatite Delta.
Il primo punto che viene affrontato è proprio quello relativo a chi deve essere sottoposto a screening per Hdv. L’indicazione è chiara e perentoria: “Tutti i soggetti che hanno un’infezione da Hbv (HBsAg positivi) devono essere sottoposti a screening per l’infezione da Hdv, con la ricerca degli anticorpi”, sintetizza Brunetto, che è tra gli autori del documento che può essere letto nella sua versione integrale sulle colonne del Journal of Hepatology.
Tali raccomandazioni permettono di riportare l’attenzione su Hdv in tutto il mondo medico, ed anche in Italia, dove negli ultimi anni, soprattutto i medici più giovani che non hanno vissuto l’epidemia da Hdv degli anni ’70-80 a volte dimenticano di ricercare questo virus nei soggetti HBsAg positivi. Va tuttavia tenuto presente che nel nostro paese la percentuale di soggetti HBsAg non testati per anti-Hdv è relativamente esigua rispetto a quanto succede in altri paesi europei o negli Stati Uniti.
Fonte: aboutpharma.com