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Epatite C: nel 2017 trattata la metà dei pazienti previsti da AIFA. Le disomogeneità regionali rallentano l’obiettivo eliminazione

In alcune Regioni ancora insufficienti le strutture abilitate a prescrivere gli antivirali innovativi per l’epatite C, forti disomogeneità organizzative e strutturali tra le regioni con ritardi nell’accesso ai trattamenti. Gravissimo il mancato utilizzo di tutte le risorse allocate nel fondo innovativi: l’obiettivo di trattare 80.000 pazienti l’anno appare ancora lontano.

Luci e ombre emergono da un’indagine conoscitiva condotta da EpaC onlus sullo stato dell’arte dell’accesso ai farmaci antivirali per l’epatite C cronica.
L’associazione dei pazienti contrappone alle evidenti criticità organizzative e strutturali precise soluzioni, come il PDTA unico nazionale.


Roma, 26 marzo 2018 – L’obiettivo eliminazione dell’infezione da virus HCV, curando 80.000 pazienti l’anno nel triennio 2017-2019, appare ancora lontano. A un anno esatto dalla rimozione delle restrizioni per l’accesso ai farmaci antivirali innovativi garantiti a tutti i pazienti con epatite C cronica, in Italia meno di un malato su due è stato avviato alle cure. Il Fondo per i farmaci innovativi non viene utilizzato a sufficienza dalle Regioni, non c’è un PDTA condiviso e mancano all’appello decine di strutture autorizzate alla prescrizione e distribuzione degli antivirali. Questa la situazione, segnata da evidenti differenze regionali, che emerge dal dossier “Epatite C - Indagine conoscitiva sull’accesso ai farmaci nelle regioni italiane”, realizzato da EpaC Onlus, grazie a un contributo liberale di MSD, da oggi disponibile online sul sito dell’Associazione (www.epac.it).

Una rivoluzione epocale, avvenuta negli ultimi anni, ha riguardato le persone affette da epatite C, prima con l’arrivo di diversi nuovi farmaci antivirali, i cosiddetti DAAs (Direct Antiviral Agents), efficaci per quasi tutti i pazienti, poi a marzo 2017 con i nuovi criteri di trattamento per l’epatite C cronica, che hanno consentito l’accesso universale alle nuove terapie in regime di rimborsabilità da parte del SSN. Questa storica decisione è stata possibile anche grazie alla riduzione del prezzo degli antivirali e l’allocazione di 1,5 miliardi di euro nel triennio 2017-2019 per i farmaci innovativi e, parallelamente, AIFA ha annunciato importanti e ambiziosi obiettivi: eliminazione dell’infezione da virus HCV dall’Italia entro il 2020, trattamento di almeno 80.000 pazienti l’anno e aumento del numero dei Centri autorizzati di 50 unità.

«Sebbene il numero di pazienti avviati al trattamento sia in aumento, ad oggi questi obiettivi appaiono difficili da raggiungere – dichiara Ivan Gardini, Presidente EpaC Onlus – l’indagine rileva uno scenario critico circa le caratteristiche delle strutture autorizzate in ciascuna Regione ma, soprattutto, le stesse Regioni - eccetto Sicilia e Veneto - non hanno predisposto strategie adeguate per la presa in carico di tutti i pazienti già diagnosticati, attraverso il coinvolgimento degli stakeholder che gestiscono interi bacini dove stazionano pazienti da curare: parliamo delle carceri, SerD, Medici di famiglia, strutture ospedaliere non autorizzate, ecc. In particolare, continuiamo a ricevere segnalazioni di pazienti con cirrosi che dalle strutture non autorizzate non sono ancora stati inviati alle strutture autorizzate per essere curati immediatamente, e questo è inaccettabile.
Diverse strutture ospedaliere hanno esaurito gran parte dei pazienti da curare in lista di attesa ed è giunto il momento di riorganizzare le reti di cura per la presa in carico di tutti i pazienti, nessuno escluso, potenziando le strutture che hanno ancora molti pazienti in lista di attesa, e incrementando il numero delle strutture autorizzate in ragione del bisogno presente e futuro. Ci preoccupa il fatto che non abbiamo riscontrato la chiara volontà di aderire al piano di eliminazione triennale, per il semplice fatto che nessuna Regione ha messo nero su bianco quanto annunciato da AIFA, né come volontà di eliminare l’infezione entro 3 anni, né come obiettivi numerici, regionali e per singola struttura. Non è un caso che Sicilia e Veneto sono le uniche Regioni che hanno personale interamente dedicato al piano di eliminazione dell’epatite C e quindi hanno sviluppato politiche organizzative ed operative adeguate all’obiettivo da raggiungere».


Qualche dato: il 52% delle Regioni, nel passaggio da DAAs di prima generazione a DAAs di seconda generazione, ha incrementato il numero di Reparti prescrittori (Veneto +22, Puglia e Sicilia +7, Toscana +10), il 28% lo ha lasciato invariato mentre il 20% ha operato tagli anche drastici (Lazio -8, Campania -53). Da marzo 2017 poche Regioni hanno ampliato il numero dei Centri prescrittori: Veneto +4, Piemonte +3, Molise +3, Puglia +1, Friuli Venezia Giulia +1, e altrettanto esigue sono le Regioni che hanno incrementato il numero dei reparti: Toscana +1, Lazio +1, Calabria +1. Nel complesso il numero delle strutture autorizzate è cresciuto di 15 unità da parte di 8 Regioni (meno di un terzo di quanto annunciato).

Il numero dei pazienti avviati alle cure è in aumento, ma troppo lentamente: dai 30.874 pazienti trattati nel 2015 si è arrivati ai 44.795 pazienti trattati nel corso del 2017, con un incremento apprezzabile negli ultimi mesi dell’anno (da gennaio 2017 al 31 luglio 2017 erano stati trattati 20.474 pazienti, ancora meno rispetto allo stesso periodo del 2016). Un incremento che però è ancora distante dal target mensile di 6.667 pazienti da avviare al trattamento per raggiungere gli 80.000 pazienti/anno.

Non va meglio nell’organizzazione dei percorsi di presa in carico. Solo il 24% delle Regioni ha realizzato un PDTA (Lombardia, Umbria, Campania, Basilicata, Sicilia), un altro 24% ha redatto Documenti d’indirizzo, nulla di fatto nelle restanti Regioni. Tuttavia, solo la Sicilia ha predisposto percorsi di presa in carico che coinvolgono sistematicamente i medici di famiglia e prossimamente anche carceri e SerD, e anche il Veneto si sta organizzando allo stesso modo.

Le criticità più rilevanti evidenziate nell’indagine riguardano difformità regionali nel governo dell’accesso ai farmaci innovativi; difficoltà reale tra le varie Regioni a reperire atti amministrativi e documenti che il cittadino/paziente ha diritto di conoscere; disomogeneità nella selezione dei Centri autorizzati riguardo a quantità e loro distribuzione, tanto che le differenze macroscopiche che si registrano nelle varie Regioni circa la presenza di strutture autorizzate causano in alcuni casi problemi di distanza per i pazienti e di allungamento dei tempi d’attesa. Oltre alla concreta mancanza di un PDTA unico nazionale, è assente la presa in carico di popolazioni speciali di pazienti (cosiddetti hard to reach), così come assente è il coinvolgimento dei medici di medicina generale e manca un modello di integrazione preciso per una collaborazione tra Centri autorizzati e non. Alle criticità diffuse si contrappongono esempi di best practice, che pure non mancano come la rete HCV Sicilia, la rete provinciale bergamasca integrata a quella regionale nell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII della Lombardia e l’esempio del Veneto, che ha più che raddoppiato il numero dei reparti autorizzati alla prescrizione dei nuovi antivirali di seconda generazione.

Segnali d’allarme anche sul fronte del Fondo farmaci innovativi: stando all’Art. 30 del Decreto legge 50/2017, le risorse non utilizzate tornano al Fondo Sanitario Nazionale, liberando il vincolo di utilizzo esclusivo per i farmaci innovativi. Una norma totalmente disincentivante, quando invece le risorse non impiegate potrebbero essere destinate a potenziare con personale aggiuntivo alcuni Centri Autorizzati che sono al limite della loro capacità prescrittiva, oppure utilizzati per effettuare screening, o comunque reinvestire quelle risorse per accelerare il piano di eliminazione.

Dunque, uno scenario complesso, sul quale tutti gli attori devono fare un’attenta riflessione per individuare soluzioni adeguate per velocizzare la presa in carico e cura dei pazienti consapevoli e inconsapevoli dell’infezione.

«In primo luogo dovrebbe essere elaborato un PDTA unico nazionale condiviso da tutte le Regioni nel rispetto delle singole autonomie e strutture organizzative, che contenga pochi punti operativi ma essenziali per tracciare percorsi di presa in carico e avviamento alla cure – spiega Ivan Gardiniperaltro attività anche semplici come ad esempio e procedere con un’analisi delle performance prescrittive di tutti i Centri autorizzati e intervenire sulle anomalie, ma anche effettuare un AUDIT nelle strutture/reparti/micro e macro comunità che hanno in carico pazienti mai avviati a un Centro autorizzato. In ragione delle informazioni ricavate dagli audit, va ridefinita la Rete regionale di presa in carico, includendo nella Rete di cura i presidi con popolazioni speciali e coinvolgendo i medici di medicina generale organizzando corsi di formazione ad hoc. Terzo punto, servono regole chiare per il follow up dei pazienti guariti e indicazioni precise su come e quando indirizzarli definitivamente al medico di famiglia, ma anche linee guida sugli screening per fare emergere pazienti inconsapevoli dell’infezione nella popolazione generale e sottogruppi a maggiore rischio. Infine, riteniamo indispensabile e doveroso prima ammonire e poi sanzionare il personale sanitario che consapevolmente trattiene e non invia alle strutture autorizzate pazienti anche con grave malattia epatica, poiché la malattia peggiora inesorabilmente e viene cagionato un danno alla salute talvolta anche fatale. In qualunque caso, sarebbe già un grande passo in avanti se ogni Assessore alla Salute nominasse un incaricato che si occupi esclusivamente del piano di eliminazione con un solo obiettivo: ZeroEpatiteC!».

Ufficio stampa:
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Indagine conoscitiva accesso nuovi farmaci epatite C


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