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Epatite B/Delta, il successo di una campagna sul territorio per sensibilizzare sulle infezioni virali e lo screening

Se convincere i soggetti a rischio di epatiti virali a recarsi in ospedale per lo screening può essere complicato – soprattutto nel caso di persone che lavorano da lunedì al sabato e non possono chiedere permessi – forse la soluzione può essere portare lo screening a “casa loro”. Più precisamente, nel caso delle popolazioni proveniente dall’Est Europa, nelle Chiese ortodosse: non solo un centro di culto ma anche di aggregazione e di mutuo soccorso molto frequentato. È stata questa l’idea di Giuseppina Brancaccio, ricercatrice e infettivologa presso il Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova, che ha condotto il progetto “Screening per epatite B e Delta tra soggetti originari dall’Est Europa attraverso un programma di informazione tra pari” interamente finanziato dal Fellowship Program 2023 promosso da Gilead Sciences.

Obiettivi del progetto sono stati da una parte identificare nella popolazione target i soggetti positivi all’epatite B (Hbv) e Delta (Hdv) e istituire un modello di linkage to care con il paziente al centro, che potesse continuare anche dopo la conclusione del progetto. Spiega Brancaccio: “La prevalenza dell’epatite Delta è troppo bassa per fare uno screening a tappeto, per questo ho cercato di identificare le popolazioni a rischio per provenienza geografica e stile di vita. I primi che mi sono venuti in mente sono stati gli immigrati dell’Est Europa, quelli dell’Africa occidentale sub-sahariana e la comunità Msm (Uomini che fanno sesso con uomini). Le più facili da raggiungere sono state le comunità rumene e moldave che hanno come punto di incontro le chiese ortodosse che si trovano nel territorio di Padova. Ho pensato che recarmi ‘a casa loro’ potesse essere un quid in più, e così è stato”.

Alta trasmissibilità

Le popolazioni provenienti dalla Moldavia, Romania, Ucraina, sono tra quelle a maggior rischio di contrarre Hbv e di conseguenza Hdv (che può manifestarsi solo in presenza della prima, perché il virus per propagarsi nella cellula epatica richiede l’antigene di superficie del virus dell’epatite B) poiché nell’Est Europa i programmi vaccinali sono stati implementati solo di recente. Come racconta Brancaccio quindi alcune delle persone con cui lei e il suo team sono entrati in contatto erano stati vaccinati, ma la maggior parte no e non tutti erano a conoscenza dell’esistenza di diversi tipi di epatiti e del modo con cui si trasmettono.

Chiarisce Brancaccio: “L’epatite B e Delta, a differenza dell’epatite C, ha un’elevata trasmissibilità che avviene oltre che per via parenterale (contatto di sangue) anche per via sessuale e verticale (materno-fetale). Le riscontriamo molto spesso nelle donne straniere in corso di gravidanza o anche al momento del parto e dobbiamo iniziare subito il trattamento. Per questo individuare le persone positive ma asintomatiche è fondamentale perché il trattamento riduce il numero dei soggetti viremici, il reservoir del virus e il ciclo di trasmissione”.

La campagna consapevolmente

Nella prima parte del progetto il team coordinato dall’infettivologa ha incontrato le comunità Moldave e Rumene dopo i riti religiosi domenicali, per spiegare loro le finalità e l’utilità del progetto e fornire maggiori informazioni sullo screening, sulla trasmissione delle epatiti virali e sui danni che possono provocare se non curate per tempo. “Inizialmente è stato difficile entrare nella loro comunità – ricorda Brancaccio – non si sono mostrati disponibili allo screening, per una certa comprensibile diffidenza. Poi anche grazie al tramite del parroco abbiamo aperto un dialogo e hanno acquisito fiducia. Abbiamo distribuito del materiale informativo e in un secondo momento eseguito il test rapido per l’epatite B e C organizzato nei locali della Chiesa”.

[Guarda qui il video della campagna]

Obiettivo raggiunto

I test, come spiega l’esperta, sono stati condotti in anonimato, ma in modo che chi risultava positivo all’Hbv potesse essere richiamato per una conferma della diagnosi in ospedale. A quel punto veniva eseguito anche il test per l’epatite Delta tramite prelievo del sangue e i positivi potevano entrare in trattamento. “I dati raccolti saranno presto oggetto di una pubblicazione – precisa Brancaccio – ma posso anticipare che l’obiettivo è stato raggiunto. A ogni seduta abbiamo fatto circa 70-80 test e trovato positivi per l’Hdv 2-3 pazienti, in linea con quanto era prevedibile. Al di là di questo però siamo riusciti a creare consapevolezza sulle epatiti, sulla possibilità di vaccinarsi e curarsi per l’epatite B e Delta, attivato un passaparola che anche al termine del progetto ha portato altre persone a recarsi da noi per eseguire lo screening”.

L’importanza della diagnosi precoce

Un traguardo importante considerando che l’identificazione delle persone positive al virus consente di sottoporle a terapie ormai ampiamente e gratuitamente disponibili interrompendo da una parte la catena di contagio e dall’altra fermando la progressione della malattia. “Lo abbiamo detto più volte durante gli incontri – conferma Brancaccio – che trattare una malattia lieve è meglio e che spesso le cicatrici (fibrosi) presenti sul fegato rimarginano prima in caso di danno iniziale. Soprattutto per l’epatite Delta la progressione della malattia verso la cirrosi è 3-4 volte più veloce rispetto ai pazienti che hanno la sola infezione HBV. L’Hdv è un virus aggressivo fino a favorire l’insorgenza del cancro del fegato”.

Prossimi passi

Continuare a seguire le persone in trattamento è sicuramente uno dei prossimi passi del team di Brancaccio, così come effettuare lo screening delle persone che arriveranno anche tramite passaparola. L’idea però è di replicare quanto già fatto anche per raggiungere le altre persone a rischio. “Vorrei arrivare alla comunità afro-occidentale sub-sahariana e a quella dei Msm”, afferma l’infettivologa. “Con questi ultimi l’approccio è più facile perché più sensibilizzati e disponibili a fare lo screening, mentre per gli immigrati africani c’è anche la difficoltà del prelievo del sangue non bene accetto per motivi religiosi. Mi sto impegnando però per individuare la comunità a Padova e creare un contatto, anche perché spesso si tratta di donne fertili che arrivano alla gravidanza positive all’epatite B e a volte anche Delta”.

Al termine del progetto è stato anche prodotto un video che testimonia il lavoro fatto e che potrà essere usato in futuro come materiale informativo. “Di screening ne ho fatti tantissimi in varie sedi – conclude Brancaccio – anche nelle piazze e con il camper che girava per la città, ma questa è stata un’esperienza completamente diversa anche sotto il profilo umano. Se noi abbiamo dato a loro, devo ammettere che loro hanno dato molto a noi”.

Fonte: aboutpharma.com

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